[Venezia]*

Elvira non aveva dormito granché durante la notte, era troppo agitata. Sentiva l’adrenalina scorrere nelle vene, non il sangue. Le sembrava che il sangue fosse come bloccato tutto nel cuore, un bocciolo di rosa pronto a esplodere, più che a sbocciare.

L’appuntamento era stato fissato alle 11 di giovedí mattina al penultimo scalino di fronte all’entrata della chiesa di San Simeon Piccolo. Lui si divertiva a scrivere quei particolari, in fondo erano semplici -aveva aggiunto tra parentesi- ma lei aveva lo stesso paura di perdersi, che succedesse chissà cosa.

Elvira prese il treno con due ore di anticipo, inutile guardare dalla finestra il tempo passare.
Il suono delle rotaie sembrava una sinfonia, avvertiva l’adrenalina mescolarsi nuovamente col sangue e chiuse gli occhi. Il buio fu luce e acqua salata che saliva come se i suoi piedi fossero le radici di un salice che doveva nutrire fino all’ultima fogliolina di lunghi rami che ondeggiavano al vento.

Il treno si fermò a Venezia Santa Lucia provocando un sussulto nel corpo provato dal troppo amore trattenuto per mesi.
Scese, camminò, respirò l’odore del mare, ascoltò il motore dei vaporetti e si lasciò accecare dal sole.
Poi panse. Pianse sorridendo. Pianse sentendo il corpo liquefarsi come un cioccolatino dimenticato nella tasca.
Si può amare un luogo così follemente?

Scese gli scalini e si fermò sul penultimo, fece tre passi a destra per allinearsi all’entrata della chiesa appena restaurata, e si lasciò sedere, come la piuma di un gabbiano persa durante il volo.

È stato facile, sì.

Ora poteva guardare quel viavai veneziano per almeno un’ora, il tempo utile a emozionarsi di nuovo.

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