Questa storia non è una storia. Paolo Ciampi lo ripete spesso nel testo, quasi a dire questo libro non è un libro oppure a mettere sull’avviso il lettore questo romanzo non è un romanzo. Dubbi leciti per uno scrittore, seppur già abbondantemente pubblicato [1], ma per un lettore questi dubbi vengono meno: il libro c’è, lo possiamo tenere tra le mani, ed è anche un romanzo, nel senso che rispetta una delle prime regole classiche che lo caratterizzano, e cioè che il protagonista non è più lo stesso quando arriviamo alla fine della lettura; è una storia? sì, è una storia che assume la veste autobiografica, perché la narrazione è in prima persona, e lo stile è molto simile a quella del diario o, meglio, di un taccuino di appunti.

Penso che sia proprio questo tratto a coinvolgere il lettore, come fosse partecipe della vita dello scrittore e dell’avventura che sta vivendo o di una sorta di viaggio spazio-temporale che Paolo intraprende per dare/trovare il senso della storia. C’è un altro aspetto interessante che trapela dalle pagine che si leggono con grande curiosità e semplicità, è quel sentimento d’amore viscerale per la propria città, Firenze, che si respira da uno sguardo fuori dalla finestra o da una pedalata con l’euforia di un adolescente che sperimenta la libertà.

Prima di perdermi nelle derive suggerite da questo libro -in questo grande affinità con l’autore- vi lascio alcuni dettagli sulla trama, che non è una trama (sic!): dove Firenze sembra finire, in fondo al parco delle Cascine, percorso il Lungarno, c’è il monumento all’Indiano; una sera di fine estate, una voce -che è quella dell’autore, ma forse no- pone l’accento su quella statua e ne ipotizza il racconto. Da qual momento, con andamenti sinusoidali ma piuttosto frequenti da un certo momento in poi, l’Indiano sarà il centro dell’attenzione di una ricerca e diventerà il compagno di viaggio, di un’amicizia immaginata che rimane a senso unico fino a quando Paolo non comprenderà che il doppio senso è la sua stessa immagine specchiata nel nome di un ragazzo che arrivò a Firenze solo per morire. Era il 1870, Firenze era -ancora per poco- capitale del Regno d’Italia, e quel ragazzo era un principe, era -come riporta il quotidiano di quel tempo- S.A.R. il Rajah Muharaja de Kolapore ovvero Sua Altezza Reale il Maharaja di Kolhapur, un regno che ora è un distretto nello stato federale del Maharasthra della Repubblica dell’India. Il suo nome era Rajaram. Il resto della storia è bella da leggere e non ve la racconto!

Photo Paolo Ciampi

Ciò su cui vorrei soffermarmi sono gli echi di questa storia, ce ne sono molti ma ne tratto solo alcuni. Paolo sottolinea in più occasioni quanto sia importante il nome di una persona, e lo è proprio perché il nome sopravvive al tempo molto più dei tratti del volto o dell’aspetto del corpo, che si consumano, si sfocano anche per le menti dotate di memoria più duratura: il nome, come i grandi o banali aneddoti della vita di una persona, è ciò che più facilmente ricordiamo e più semplicemente raccontiamo, come fosse il passaggio del testimone in una staffetta tra generazioni. Allora Rajaram diviene il pretesto per ricordare ragazzi come lui, con lo stesso destino di morire giovani e non in patria, e quando Paolo nomina Giulio, Fabrizio, Valeria e altri ancora, il dolore e il senso di incomprensione per certe virate della vita si fa più vicino, ci stringe lo stomaco.

Altra risonanza interessante è il poliedrico tema del viaggio: come si viaggia? A piedi o in aereo, da soli o in compagnia, nella propria terra o alla scoperta di mondi nuovi -giacché ogni luogo è nuovo quando ci sei per la prima volta- e ancora, viaggi di fantasia o reali: sono numerosissime le declinazioni o le divagazioni che ruotano attorno a questa parola [2] e, a mio avviso, è stato questa parola e in suo significato metaforico a provocare inconsciamente una suggestione così potente che Paolo -scrittore giornalista viaggiatore- non si è potuto sottrarre dalla scrittura, alla necessità di cercare indizi e restituirlo sotto forma di narrazione.

Non importa se di viaggi ne hai fatto solo uno, che non ti ha riportato a casa. Con te ritiro dalla circolazione il luogo comune che provo a smerciare ovunque: che senza ritorno non c’è viaggio. La tua storia – o quello che è – mi si appiccica addosso e mi suggerisce, con garbo, che certe volte parlare è peggio.

L’intuizione che Rajaram fosse prima di tutto un viaggiatore nell’animo, che il viaggio da Kolhapur-India a Londra-Gran Bretagna, via terra e via mare, nel 1870 fosse il desiderio più grande del ragazzo di vent’anni, a prescindere dalle difficoltà di abbandonare l’agiata vita di palazzo o dai rischi che un tale viaggio poteva comportare, ecco la scoperta cambia che la prospettiva e alimenta il desiderio di sapere. E, alla fine, cosa accade? Accade quello di cui tanto si parla e raramente si vive: il viaggio si fa sottile, etereo, e non è più esterno ma viene assorbito dalla pelle e comincia a muoversi all’interno del viaggiatore e del lettore, e trasforma, anche se in modo infinitesimale, la comprensione di ciò che si è.

E, infine, c’è l’India. Se dovessi fare una proporzione potrei azzardare che Paolo sta a Firenze come io sto all’India; il sentimento che provo per ‘lei’ non è legato solo ai luoghi che ho visto e alle persone che ho incontrato ma a quello spirito di ricerca che è un po’ la stessa forza che Paolo fa respirare nelle sue parole, perché cercare è smuovere i ricordi, le citazioni che si sanno a memoria, le canzoni che canticchiamo senza saperne l’esatto motivo, ma… ma nel momento in cui si inizia a cercare, le fantasmagoriche antenne di ogni cellula del nostro corpo si attivano e diventano recettori attivi di particolari, di parole, di suoni e di profumi, insomma, di innumerevoli connessioni che ci fanno avvicinare all’oggetto dell’investigazione.

Due sono stati i momenti che mi hanno fatto brillare gli occhi, il primo quando l’autore scopre la bellezza del sanscrito, il modo in cui si compongono le parole -non così diverso dalle lingue classiche- perché mi ha riportato al primo corso dell’università, quando anch’io, che arrivavo da una scuola superiore tecnica, scoprii la meraviglia di questa lingua, ne imparai l’alfabeto e mi commossi di fronte alla profondità di certe traduzioni; più stupefacente fu ascoltarla in India, una lingua millenaria a portata di una tazza di chay [3]. Il secondo momento è stato un sospiro di sollievo e una grande ammirazione per Ubaldino Peruzzi, sindaco di Firenze, che concesse lo svolgersi del rito funebre secondo la tradizione indù. Come scrive Paolo, a volte è proprio con l’inconcepibile che il buon senso deve sintonizzarsi ed è una frase bellissima, che ha trovato applicazione più spontaneamente nel 1870 che in tanti contesti attuali, mi viene da pensare.

Così, come la tradizione indù insegna, c’è un rtu kala momento giusto, rtu kala, per nascere e uno per morire, così suppongo che se il destino di S.A.R. Rajaram aveva previsto la sua morte fuori dall’India, gli abbia anche concesso di arrivare in un luogo che potesse accogliere un rituale diverso e strano per la cultura di fine Ottocento, un rito che prevede l’abbruciamento del cadavere, come venne scritto nel quotidiano fiorentino, che richiede la presenza della confluenza di due fiumi, che permetta a un brahmano di compiere ciò che deve e di recitare le formule necessarie in una lingua incomprensibile, e che proprio Firenze fosse governata da un uomo di valore, per cultura e per etica, come il commendator Peruzzi..

Come acqua versata nell’acqua,

non è che acqua,

semplicemente acqua.

Avadhuta Gita

La morte, come la nascita, sono momenti di passaggio in una visione del tempo circolare, che prevedere nascite e ri-nascite, morti e ri-morti. Tra i due momenti, però, quello della morte è più delicato e richiede un’attenzione diversa: a differenza del mondo Occidentale in cui il funerale è l’ultima tappa in attesa del giudizio universale, nella tradizione indù il rito della cremazione è il primo di una serie che accompagneranno l’anima del defunto per un anno intero [4].

Ciò che apparentemente è un libro che mette in ordine gli appunti che sfamano una bizzarra curiosità, si rivela come una storia che contiene in nuce assonanze di vita per ogni lettore.

[…] lasciandosi andare a ciò che c’è di più grande.


Paolo Ciampi, Il Maragià di Firenze, ed. Arkadia, collana Senza rotta, 2020.

[1] alcune informazioni sull’autore qui

[2] segnalo un altro libro di Paolo, Il sogno delle mappe, ed. Ediciclo

[3] il chay è il the: si fanno bollire le spezie nell’acqua, poi si aggiunge zucchero e the nero e, infine, il latte

[4] per che fosse interessato suggerisco il saggio di Gian Giuseppe Filippi, Il mistero della morte nell’India tradizionale, ed. Itinera progetti, 2010 e il romanzo di Guido Zanderigo, Ciò che vide Manuel Marquez, Castelvecchi editore, 2016 del quale ne ho parlato qui


Se volete saperne qualcosa di più, anche dalla voce dell’autore, qui c’è il video di Lib(r)eriamoci | incontri con gente che scrive

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