I ricordi legati all’India sono numerosi. Spesso sono i profumi delle spezie a evocare un’immagine, per esempio quando preparo il cay [the al latte speziato] o un piatto della cucina indiana; altre volte sono gli accoppiamenti dei colori: rosso e arancione, verde e viola, blu lapislazzulo e giallo, giallo e rosso, tinte dei vestiti delle donne indiane, dei loro sari o del kurta-pijama.

La prima volta che vidi questa fotografia di Raffaello Bassotto l’emozione fu incredibile, pensai “io la conosco!”. Ovviamente l’ipotesi era impossibile, la foto fu scattata nel 1978 e io andai in India per la prima volta nel 1998; lui visitò il nord e il mio ricordo è di una donna del sud. Dettagli tecnici e inutili perché quando la nostra mente elabora un’associazione è difficile dissuaderla, la finzione diventa realtà e il ricordo assume nuova vita.

Mi ero stabilita in un ostello a Chidambaram, sarei rimasta là per una settimana, forse una decina di giorni, dipendeva dall’esito delle mie ricerche. La stanza era ampia, un piccolo bagno e un fornello per cucinare che non usai mai. Arrivai in quella cittadina al tramonto, dopo un viaggio in corriera iniziato in tarda mattinata, ero stanca per cui organizzai i bagagli e mi coricai con l’intento di alzarmi all’alba.

Mi sveglia affamata: scesi e cominciai a conoscere le vie e a cercare un posto dove mangiare degli ottimi cibi del sud. Poi indugiai per le strade che portavano ancora i segni del monsone, pozze poco profonde ma assai ampie, a volte difficili da superare. Cercai di memorizzare alcuni punti di riferimento e mi incamminai verso il complesso templare. Chidambaran è conosciuta in tutta l’India per ospitare il tempio dedicato a Siva Nataraja, il Signore della danza e dei danzatori. Era il tema centrale della mia tesi di laurea.

A ritorno dal tempio, poco prima dell’ostello, attraversai una via simile ai nostri mercati paesani, venditori di frutta e verdura provenienti dalla campagna, principalmente donne, alcune con un piccolo carretto di legno, molte sedute a terra con la merce esposta sopra un telo bianco. Guardai ognuna di loro, la scelta in certi casi è determinante perché poi torni da lei anche il giorno dopo, e quello dopo ancora, e questo permette che si crei “qualcosa”, qualcosa che non è nulla di che, qui, ma quando viaggi da sola e sei via da più di un mese, lo sguardo rasserenante di una vecchia donna assomiglia a un senso di casa.

Così scelsi lei, la donna della foto. E ogni giorno, andando e tornando dal tempio, comprai la frutta, quella che avrei offerto assistendo ai riti e quella che avrei mangiato nella mia stanza, mentre annotavo gli appunti della giornata e leggevo i libri che mi avevano consigliato di comprare.

L’ultimo giorno le portai un cay, era il mio modo di dire addio. Lei mi guardò sorpresa, non lo voleva. Provai a spiegare che non era un’offesa alla sua dignità, che il mio voleva essere un gesto gentile di commiato. Per fortuna passò di là uno degli studenti del tempio e venne in soccorso, spiegando che in Italia si fa così, quando ci si saluta [sic!]. Allora lei accettò e chiese a che ora sarei partita l’indomani. Si fece anche spiegare dove alloggiavo, lo studente rispose mentre lei muoveva il capo, quel movimento ondulatorio, tipicamente indiano ma che lascia disorientati gli occidentali [ha capito o non ha capito? non si sa].

L’indomani mattina alle 7.00 sentii bussare alla porta della camera, aprii e trovai sulla soglia una borsetta ricolma di frutta fresca, vidi sgattaiolare un bambino giù dalle scale. Alle 7.15 arrivò il rikshavala a caricare lo zaino e due altre borse. Gli chiesi di passare dalla via delle donne che vendono la frutta prima di andare alla stazione; lui sbuffò, il tragitto si allungava, la corriera poi partiva… la corriera partiva dopo due ore, dieci-quindici minuti non avrebbero fatto la differenza e così proposi di pagare una rupya per ogni minuto in più. Accordo raggiunto, partimmo. Non mi fermai da quella donna ma ci salutammo un’altra volta con sguardi sorridenti e d’intesa.

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